Ravenna visionaria “pellegrina e straniera”
21 giugno – 22 luglio 2003
Vorremmo raccontarvi tante cose: di questa città che è la nostra città, di questa terra, la Romagna, che è la nostra terra, di Ravenna Festival, che è il nostro festival. Forse pensiamo di sapere tutto di lei, di Ravenna, di conoscerla a fondo, proprio perchè ci viviamo o vi siamo anche nati, ma proviamo a pensare di vederla (e anche sentirla) con gli occhi di un viaggiatore che qui giunga da lontano, pellegrino e straniero. Nessuno dei tanti grandi (ma anche più modesti o sconosciuti) viaggiatori che nel corso dei secoli hanno visitato la nostra città ne è rimasto indenne. Le nostre basiliche sono luoghi propizi all’oblìo, dove si diffonde una particolare luce e si respira una speciale atmosfera, chiusi al rumore vano dell’esistenza e aperti al vivente silenzio delle idee. E oggi tutti sentiamo il bisogno di silenzio, perché dal silenzio scaturiscono le visioni… Ravenna Festival è una di queste visioni.
Ravenna è sempre stata il tema del suo Festival, assumendo anno dopo anno volti nuovi o inaspettati: ecco allora una Ravenna mediterranea, una Ravenna armena, etiope, Rom, intravista come un miraggio tra le Twin Towers che non ci sono più, con San Vitale accanto a San Basilio, sulla Piazza Rossa o specchiantesi nel Bosforo. Una Ravenna dove risuonano le voci dei muezzin di Sarajevo, dei cantori di sinagoga gerosolimitani, degli ashik turchi o azeri, in una ritrovata koiné bizantina dove le lingue si mescolano in una sorta di Babele ma felice. Una città immaginata, sognata, invisibile come quelle concepite da Calvino, che irrompe potente nelle visioni di coloro che vi si avvicinano, la percorrono e la vivono, ed una città che suscita visioni, forti, spesso lancinanti. Ecco allora che anche ciò che crediamo esserci noto e familiare qui può apparire altro da sè, estraniato ed estraniante, per una sorta di singolare alchimia che disvela affinità segrete e insospettabili.
Molti, ad esempio, penseranno che non vi sia molto da scoprire ancora – a distanza di 150 anni dalla sua prima rappresentazione – in un capolavoro della Tradizione quale è Il Trovatore (che Massimo Mila definiva però “il più pazzo dei melodrammi”). Ma cosa accadrebbe se lo immergessimo in un acquario, in una nowhere land lunare e nebbiosa da dove emergono rugginosi ruderi industriali,
con sinistri bagliori di fuoco riflessi su immobili specchi d’acqua iridescenti di petrolio? E se l’azione si dipanasse, come in un vero racconto popolare che si tramanda oralmente, in un Tempo-senza-tempo che senza soluzione di continuità va dal 1400 ai giorni nostri ed ancora oltre? Qui le immagini (le foto di una Ravenna mai-vista-così, bellissime, di Enrico Fedrigoli) si sovrapporranno in una stratificazione onirica di agitate visioni che se, da una parte, vengono ri-create utilizzando tecnologie all’avanguardia, dall’altra condividono la stessa intima poesia della lanterna magica e del teatro di burattini. La regia e la visionarietà sono quelle di Cristina Mazzavillani Muti, che – dopo aver già sperimentato e approfondito l’utilizzo creativo dell’immagine elettronica e della spazializzazione sonora in occasione dell’allestimento di Capuleti e Montecchi (2001) – si farà ancora una volta artefice di un grande laboratorio per giovani cantanti, musicisti e creatori-elaboratori di immagini e suoni.
Va anche detto che il 2003 è un anno un po’ speciale per la nostra città: si celebrano infatti i 1600 anni di Ravenna Capitale. Naturalmente il Festival non poteva non contribuire a questa importante ricorrenza proponendo anche in questo caso visioni molto particolari. Un melologo del poeta ravennate Nevio Spadoni (già autore di una fortunata – e premiatissima – Isola di Alcina, messa in scena dal Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, con le musiche originali di Luigi Ceccarelli, prodotta da Ravenna Festival) dedicato a Galla Placidia, donna estremamente colta e di raffinata civiltà, vissuta a fianco di un principe barbaro. Fu proprio lei, l’imperatrice del V secolo d. C., a scatenare strane visioni in uno dei massimi interpreti proprio della visionarietà più archetipica:Carl Gustav Jung, che visitò per ben due volte Ravenna, nel 1914 e vent’anni dopo. E Galla Placidia si svelerà in questa pièce come archetipo, a sua volta, come metafora stessa del femminile nella sua complessità anche multilingue. In lei infatti convivono mondo greco, romano, cristiano e barbaro. Vengo da lontano/fiera come un lupo/dolce come un agnello/Sul mio viso il tempo ha scavato le sue fosse. “Pellegrina e straniera” anch’essa, dunque. Interprete e regista sarà Elena Bucci, mentre le alchimie sonore saranno quelle di Luigi Ceccarelli.
Ma dalle visioni e dai sogni possono nascere intere città. Città che emergono potenti dalle acque, come la stessa Ravenna, edificata sulle paludi. Da un atto di volontà sicuramente visionaria di Pietro il Grande (per alcuni il sogno folle di un autocrate) fu edificata in pochi anni San Pietroburgo. Ravenna, porta d’Oriente, vuole celebrare i trecento anni di questa “finestra” russa sull’Occidente, meravigliosa città che è riuscita a sopravvivere agli innumerevoli tentativi di distruzione compiuti dalla natura e dall’uomo. Abbiamo pensato di festeggiare questa importante ricorrenza con gli artisti del
leggendario Teatro Mariinskij, che torneranno a Ravenna assieme al loro direttore Valery Gergiev per proporci quella musica e quella danza che hanno reso grande e assolutamente unico il repertorio russo. Il Balletto “Kirov” è riuscito (e questo forse anche grazie al lungo e forzato isolamento dall’Occidente) a preservare la Tradizione, intesa come il segno di uno stile nazionale, ma anche come una disposizione dell’anima (questa parola ancora così ricca di significato per i russi). Qui sono nate le straordinarie coreografie della Bella addormentata, dello Schiaccianoci, del Lago dei cigni di Marius Petipa. Qui si sono formati gli straordinari ballerini che hanno dominato la scena mondiale dall’Ottocento sino ai giorni nostri. A questa altissima ed inesausta tradizione continua ad attingere, rinnovandola, l’odierno Kirov che con due grandi Gala di danza – in esclusiva per l’Italia – renderà omaggio a quei coreografi-danzatori che ne hanno reso leggendario il nome in tutto il mondo: Petipa, Fokin, Balanchine e l’indimenticabile Rudolf Nureyev, che proprio sul palcoscenico del teatro dell’allora città di Leningrado mise in luce sia le eccelse qualità di danzatore che la personalità indipendente e ribelle. Ma Ravenna gli aveva già reso un estremo omaggio allorché proprio qui venne realizzata (dal laboratorio di mosaicisti Akomena, su progetto dello scenografo Ezio Frigerio) la sua ultima dimora, il sepolcro ricoperto da un tappeto kilim in mosaico, nel piccolo cimitero russo di Sainte Genevieve sou Bois a Parigi. Così immaginiamo l’ultimo viaggio di Nureyev come un viaggio verso Bisanzio, un ritorno all’Oriente che aveva abbandonato, a quelle radici tatare-musulmane che continuarono a vivere segretamente in ogni attimo della vita della grande etoile.
Ma rimanendo in terra di Russia, il filo delle ricorrenze ci conduce all’omaggio ad uno dei maggiori e più emblematici compositori del ’900 (e probabilmente anche il più popolare), e che proprio a Pietroburgo-Leningrado ebbe la sua formazione musicale: Sergej Prokof’ev, morto cinquant’anni or sono e di cui, nell’arco di due concerti, si propongono alcuni dei lavori strumentali più importanti, con interpreti di riferimento come Valery Gergiev e Aleksander Toradze. Il pianista di origine georgiana (come del resto lo stesso Gergiev) eseguirà assieme ai suoi allievi l’integrale delle sonate per pianoforte.
Sanpietroburghese (di nascita) era anche uno dei massimi narratori del ’900, Vladimir Nabokov, e Ada è sicuramente uno dei suoi romanzi più straordinari. Fanny & Alexander ha rinvenuto in quel testo molteplici spunti di ispirazione (che lo faranno diventare “Cinema da camera per voci, pianoforte, ondes Martenot, rumorista”, vero e proprio ardito esperimento sulla percezione sinestetica) per coniugare differenti desideri di indagine artistica: una piana cronaca familiare, un amore infantile, ambientato in una straordinaria magione – Ardis Hall, una geografia immaginaria, fantastica, senza tempo, che ben
corrisponde, per interstizi, alle dimensioni spaziali ravennati, quasi impermeabili al fluire del tempo, o romagnole (la magnifica notte, le acque, le industrie, la pineta…).
Poi un giovane artista, Emio Greco, visionario come pochi altri. Non lo è forse chi concepisce di danzare il Bolero di Ravel in assoluta, dolente solitudine? L’universo espressivo di questo danzatore e coreografo brindisino – che a Ravenna proporrà Double Points One & Two, in sodalizio con il regista olandese Pieter C. Scholten – si esprime in una nuova forma di danza dove tutti gli impulsi istintivi sono altrettante visioni di un mondo trascendentale, che il corpo suggerisce ma non mostra. Pulsioni mentali ed emotive in movimento che rimandano alla cinematografia del più visionario dei registi: David Lynch, in una triade di suono, luce ed oscurità.
Scorrendo il programma troverete anche una piccola ma preziosa ed autentica Saison Russe. Ce la proporrà il Teatro Helikon, per la prima volta in Italia: una realtà innovativa fondata 13 anni or sono, in piena era di perestroika, da quell’enfant prodige (ma anche terrible) che era l’allora diciannovenne Dmitrij Bertman, regista di tutti i quattro titoli proposti a Ravenna. Dal capolavoro di Tchaikovskij, l’immaginifica Dama di picche, alla più straordinaria opera del ’900 russo, la torbida e sensuale Lady Macbeth del distretto di Mtsensk, Ravenna Festival propone una full immersion nell’affascinante universo del teatro musicale russo. L’Helikon ci regalerà anche una preziosa (ed insospettabile) premiére: ad oltre un secolo dalla sua composizione l’opera Kashej l’immortale di Rimskij- Korsakov non è mai, infatti, uscita dai confini della Russia.
Tra le tante presenze d’eccezione dell’edizione 2003 di Ravenna Festival ricordiamo poi quella del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretto da Roberto Gabbiani, che oltre alla significativa presenza in Trovatore, avrà modo di esibirsi in due concerti con musiche tutte novecentesche: da un capolavoro del grande compositore italiano recentemente scomparso Goffredo Petrassi come i
Tre cori sacri a cappella (che proprio lo stesso Gabbiani diresse nella prima esecuzione fiorentina del 1985) ai Carmina Burana di Orff, eseguiti assieme ai valenti percussionisti del Nextime Ensemble di Danilo Grassi.
Se 350 anni or sono nella cittadina romagnola di Fusignano nasceva Arcangelo Corelli, considerato dai contemporanei “novello Orfeo dei nostri tempi” e che a noi oggi appare non solo come una delle più grandi personalità creative del Barocco, ma come uno dei sommi maestri dell’intera tradizione occidentale, in epoca a noi assai più vicina, esattamente vent’anni fa un gruppo piuttosto avventuroso
e – perché no – visionario di musicisti formava quello che poi si rivelerà essere un duraturo sodalizio che ha saputo affermarsi come una tra le formazioni più accreditate internazionalmente nell’ambito della prassi esecutiva barocca. Le interpretazioni che l’Accademia Bizantina, sapientemente diretta da Ottavio Dantone, ha dato di molti capolavori corelliani rappresentano oggi dei riferimenti assoluti anche dal punto di vista discografico.
In pochi altri festival, crediamo, si può avere l’opportunità di assistere all’esecuzione di un’integrale delle sinfonie di Johannes Brahms che veda alternarsi sul podio direttori come Riccardo Muti, Lorin Maazel e Zubin Metha, alla testa – rispettivamente – di compagini orchestrali prestigiose come l’Orchestra Filarmonica della Scala, la Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks e l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Così come rara e prezioso può essere l’esperienza di ascoltare le Suites di Johann Sebastian Bach eseguite da un eccentrico fuoriclasse come Mischa Maisky (che figura anche come solista nel Concerto di Schumann con l’Orchestra Filarmonica della Scala diretta da Muti)in una cornice come l’abside della bizantina Sant’Apollinare in Classe.
Un ritorno graditissimo poi è quello di Hansjörg Schellenberger, che, oltre ad essere uno dei più eccelsi oboisti del nostro tempo, è attivo da anni come direttore d’orchestra. Assieme alla Camerata di Salisburgo proporrà due densi programmi dedicati principalmente al classicismo viennese ma che prevedono un’incursione in ambito contemporaneo, con un omaggio a Bruno Maderna, nel trentennale
della scomparsa, e un brano del compositore australiano Brett Dean, dedicato a Carlo Gesualdo da Venosa. Rilevante come sempre è poi lo spazio dedicato dal Festival ad altri generi musicali, pur senza alcuna distinzione di ‘valore’ ma con un’attenzione costante rivolta piuttosto alla qualità e alle valenze culturali: in questo contesto si situano le presenze di artisti come gli statunitensi Take Six, con i quali prosegue quell’indagine sulla vocalità altra iniziata con artisti come Bobby McFerrin e Manhattan Transfer, ed il cantante senegalese Yossou N’Dour, una delle voci più amate e popolari di tutto il continente africano, ma che ha saputo rapidamente imporsi – grazie anche alla collaborazione con Peter Gabriel – sulla scena pop mondiale.
Dopo l’apprezzato esordio nella scorsa edizione del Festival si ripropone l’Omaggio ai Campioni, l’originale proposta che vede atleti di diverse discipline sportive salire sul palcoscenico e condividerlo in singolar tenzone con musicisti e attori. Quest’anno la manifestazione, che gode del patrocinio della Gazzetta dello Sport, mantiene la sua vocazione originaria agli sport “minori” focalizzandosi sulla scherma e la ginnastica, là dove stile ed eleganza del gesto regnano ancora sovrani, come dimostrerà la partecipazione straordinaria del grande Yuri Chechi, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta. Tra gli spiriti più visionari del secolo appena trascorso, vere e proprie icone novecentesche il Festival ne ha scelti alcuni a cui ha voluto dedicare altrettanti sentiti omaggi.
A Carmelo Bene – l’attore filosofico che si è posto “al di là della rappresentazione e al di là del teatro” – e a Maria Callas, entrambi sublimi funamboli della phonè, è stato dedicato un luogo di visioni, ospitato nel Museo d’Arte della Città, dove saranno programmati senza soluzione di continuità due importanti realizzazioni audiovisive: “Ah, non fuggir, imagine adorata…”, dovuto alla sensibilità di Lorenzo Arruga, messosi “sulle tracce di Maria Callas attrice” e Carmelo Bene in Carmelo Bene realizzato da Silvana Castelli in stretta collaborazione con lo stesso Carmelo, che ha voluto considerarlo una sorta di proprio testamento. Un ulteriore omaggio a Maria Callas l’abbiamo affidato alla sensibilità e alla grande eleganza di Micha van Hoecke, che da tanti anni, assieme al suo magnifico Ensemble, riesce letteralmente a dare corpo ai nostri temi con la sua vera e propria poesia in movimento. Non poteva mancare Federico Fellini: al grande maestro riminese, al suo ricordo è dedicata la prima edizione del premio istituito dal Ravenna Festival e che viene conferito a colui che, romagnolo anch’egli nonché coetaneo dell’autore di
Amarcord e di tanti altri capolavori, è stato tra i suoi più stretti collaboratori, Tonino Guerra. Ma l’attenzione rivolta da Ravenna Festival al cinema non è del resto episodica e – sempre nel contesto di quella vocazione multidisciplinare – si è concretizzata in una serie di omaggi rivolti a maestri come, ad esempio, Michelangelo Antonioni e Theo Angelopoulos (con entrambi i quali Guerra ha lungamente collaborato). Tonino Guerra non è ‘solo’ uno degli sceneggiatori più importanti della storia del cinema, è anche colui che forse più di ogni altro ha
contribuito a disegnare i contorni a volte sfuggenti di quell’entità non solo geografica ma forse soprattutto mentale ed esistenziale che è la “romagnolità”. Attraverso le sue parole sempre poetiche e suscitatrici di immagini, Guerra ha raccontato al mondo quello strano microcosmo saturo di umori viscerali, passioni, spirito ribelle ma generoso che è la Romagna, conferendo una dimensione ‘universale’ e non meramente localistica o provinciale ad un modo di sentire, più ancora di essere. Al termine di quella sorta di “itinerario dello stupore” che vorrebbe essere il Ravenna Festival, si profila all’orizzonte una sorta di miraggio, nel deserto, un’ultima visione. Questa volta le “Vie dell’amicizia”, i nostri ponti di fratellanza attraverso l’arte e la cultura, ci condurranno ancora una volta al di là del Mediterraneo, culla di civiltà, fino al Cairo dove, ai piedi delle piramidi, risuonerà la Grande symphonie funèbre et triomphale di Berlioz (un altro
omaggio, nel bicentenario della nascita) eseguito dalle compagini unite per l’occasione dell’Orchestra e dal Coro Filarmonico della Scala, dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera del Cairo e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretti da Riccardo Muti.
Ci congediamo con le parole, sublimi, che la grande scrittrice Marguerite Yourcenar ha voluto dedicare alla nostra città a seguito di un soggiorno di una settimana (nel 1935, sì, poco meno di un anno dopo la seconda visita di Jung). La prosa, intitolata “Ravenna ovvero il peccato mortale”, è contenuta in Pellegrina e straniera:
Non c’e’ altra città dove si risenta maggiormente dello iato tra l’interno e l’esterno, tra la vita pubblica e la segreta vita solitaria. …qui, in questa purezza di tenebre ben presto rese trasparenti dall’abitudine, rilucono qua e là fuochi limpidi come quelli di un’anima in cui lentamente si formino i cristalli della sventura. I pilastri ruotano con la terra. Le volte ruotano con il cielo. Girano in tondo gli Apostoli, come dervisci agli acuti suoni di un valzer lento. Mani divine sospese a caso, vaghe come quelle che sfiorano i volti nelle sedute spiritiche, derisorie
come le mani disegnate sui muri per indicarci la strada che abbiamo sempre torto a seguire. Impotenti a ricreare un mondo, queste mani si accontentano di benedirlo. Uno dei segreti di Ravenna sta in questo confinare dell’immobilità con la velocità suprema; essa conduce alla vertigine. Il secondo segreto di Ravenna è quello dell’ascesa al profondo, l’enigma del Nadir. Letteralmente, i personaggi dei mosaici sono minati: hanno scavato in se stessi enormi caverne nelle quali raccolgono Dio. Affondati nelle viscere dell’estasi, partono alla ricerca di un sole
di mezzanotte, ai mistici antipodi del giorno. La loro esperienza contraddice lo slancio gotico che tende le braccia a Dio. Rinchiusi in un sogno, imprigionati sotto la campana da palombaro delle cupole, sfuggono alla frenesia del mondo nella serenità del baratro. Non è vero che quegli uomini e quelle donne sfuggissero in Dio a un mondo inondato di sangue, nel quale il passante rischiava continuamente di ricevere in testa i cocci di un impero. Spessissimo questi periodi di clausura meditativa e di ardente tristezza preparano le catastrofi, più che deplorarle.
Le precedono, come il peccato precede la punizione.