Illuminazione sulle vie di Damasco
10 giugno – 25 luglio 2004
Ravenna Festival compie 15 anni e li festeggia con un’edizione che intende essere particolarmente significativa nel suo ribadire quell’impostazione e quei temi di fondo che l’hanno accompagnato sino ad oggi, conferendogli una fisionomia precisa ed originale. Innanzitutto la multidisciplinarietà, ovvero l’apertura ai diversi linguaggi della creazione artistica, nessuno escluso (e tra di loro dialoganti): musica, teatro, danza, cinema, letteratura, arti figurative, e questo anche con una particolare attenzione all’uso delle nuove tecnologie (dove la tessera musiva ha trovato nel pixel dell’immagine digitale il suo altrettanto luminoso analogo). E poi l’accento posto sul confronto con l’Oriente, o meglio gli Orienti del mondo, con il Mediterraneo e le sue passate e splendide civiltà ma anche con i popoli che ancor oggi – troppo spesso così precariamente e drammaticamente – lo solcano, lo attraversano. Tutto questo sempre con la consapevolezza che questa città, Ravenna, ha una storia tutta particolare da cui deriva in qualche modo un destino, una missione che si attua oggi attraverso le vie dell’arte e dell’amicizia.
Proprio per ribadire questo suo peculiare percorso, questi suoi temi di fondo, il festival ha deciso di segnare il giro di boa dei quindici anni di vita con una importante commissione ad uno tra i più originali compositori italiani: Adriano Guarnieri, che già ha iniziato a scrivere l’opera Pietra di diaspro, su testi tratti dall’Apocalisse di Giovanni, e dall’opera poetica di due grandi poeti moderni: Pier Paolo Pasolini e Paul Celan.
In questo momento storico forse non è né banale né inutile evidenziare ulteriormente questa “ansietà d’Oriente” di cui diceva Montale declinandola con percorsi e progetti diversi che indicano direzioni e orizzonti insospettati. Intanto muovendoci sulla strada che conduce a Damasco, inteso come luogo geografico ma anche come “luogo” dello spirito e dell’anima. Come già altre volte in passato è avvenuto, la meta si fa tema ed il percorso disegna un programma ampio e variegato, con tanti punti di eccellenza – soste sicure e ambite – ma anche scorci improvvisi, deviazioni inaspettate, in quello spirito del “viaggio” e del “pellegrinaggio” che ha contraddistinto le programmazioni di Ravenna Festival fin dagli esordi. E questa volta ci aspetta un Oriente ancora più vasto e profondo, capace di disorientare e stupire. Da Ravenna alla Siria e poi sempre più giù, verso Est, passando per l’India, fino all’Indonesia: sempre sotto le sette stelle di Orione (nel nostro dialetto romagnolo: al sett sidar), l’unica costellazione condivisa – e dunque visibile – dai due emisferi.
Ma quali sono i confini del nostro stesso continente, l’Europa? Qualche volta dovremmo ricordarci che siamo indo-europei e che la nostra civiltà è euro-asiatica: non ha dunque senso tracciare confini ad Est, e così da Ravenna il nostro sguardo non trova ostacoli. Ed invece, come ha scritto Paolo Rumiz: “In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo (prima meta, nel 1997, delle “Vie dell’amicizia” tracciate da Ravenna Festival), espulso dal nostro immaginario”. Quell’Oriente rimosso che è pur dentro di noi, si tratta di andarlo a scovare per farlo riemergere, grazie anche alle illuminazioni ed ai fruttuosi paradossi e cortocircuiti che solo l’arte spesso è in grado di creare, sollecitare, mettere in atto (ed anzi in scena). Questo grazie a grandi creatori come Richard Wagner o Robert Wilson (entrambi uniti nell’utopia realizzata dell’opera d’arte totale). Sì, perché è bene ricordare che il nome stesso di Parsifal, secondo l’etimologia indiana fatta propria da Wagner, deriverebbe da parsi (“puro”) e fal (“folle”): il “puro folle”, appunto. Il capolavoro wagneriano – di cui il direttore americano (ma d’origine giapponese: e siamo all’Oriente estremo, questa volta) Kent Nagano dirigerà alcune pagine orchestrali – che con le sue contorsioni drammatiche e la sua opulenza sensuale apre la strada alla sterminata diffusione del gusto floreale orientaleggiante, si è posto come formidabile monumento per la cultura del decadentismo europeo. Da quella medesima temperie culturale proviene il più improvviso e al contempo discusso capolavoro dell’opera tedesca post-wagneriana: la Salome di Richard Strauss, che sarà diretta da Peter Schneider. Opera impregnata di vitalismo, esotismo, erotismo ed estetismo se mai altre, che avviluppa l’ascoltatore in vortici che oscillano tra inaudite violenze foniche ed affilate leggerezze. E, tra l’altro, quali analogie tra la figura di Kundry (misteriosa creatura che espia nella sua doppia natura di peccatrice e penitente l’antica colpa di aver deriso Cristo) e quella di Salome! Vogliamo poi parlare del Sacro Graal e dei castelli dei cavalieri templari che ancor oggi si stagliano all’orizzonte dei deserti di Siria? Piccole ma preziose illuminazioni… sulla via di Damasco.
Anche oggi i grandi artisti non tollerano confini e si sentono positivamente e consapevolmente “globali”, voraci di idee e stimoli, ma attenti alle differenze, rispettosi delle peculiarità di culture e lingue diverse. In questo senso sia Philip Glass che Robert Wilson, entrambi americani, condividono un approccio simile ed il loro cammino li vide entrambi reciprocamente “illuminati” da quella che probabilmente può essere considerata l’opera più aperta e gioiosamente luminosa del secondo dopoguerra: quell’Einstein on the Beach che ha segnato un punto di non ritorno del moderno equivalente del gesamtkunstwerk wagneriano. A Ravenna presenteranno due importanti progetti, tra loro distinti ma uniti nel volgere lo sguardo verso l’emisfero meridionale del mondo.
“Orione, la maggiore costellazione del cielo notturno – ci ha scritto il compositore newyorkese – è visibile in ogni stagione, sia dall’emisfero settentrionale che da quello meridionale. Sembra che tutte le civiltà abbiano creato miti e si siano ispirate a Orione. Nel procedere dell’opera ognuno dei compositori/performer che ho chiamato a collaborare con me – io incluso – sarà libero di lasciarsi guidare da questa ispirazione nel proprio lavoro. In tal modo il cielo stellato visibile da ogni punto del nostro pianeta ci ispira nel comporre e presentare un vero progetto musicale internazionale e multiculturale”.
Così Glass ha scelto grandi musicisti di entrambi gli emisferi, dall’Australia sino alla Nuova Scozia, per questo suo importante nuovo lavoro, Orion, che sarà presentato solo ad Atene, Ravenna e Barcellona.
I La Galigo invece, è la nuova grande, “visionaria” opera di musica, teatro e danza di Robert Wilson, e si basa su un antico poema epico del popolo Bugis dell’arcipelago Sulawesi del Sud (conosciuto anche come Isole Celebes), in Indonesia. Il Sureq Galigo, questo il titolo del poema, narra la storia della creazione della terra e delle prime sei generazioni dei suoi abitanti. L’allestimento prevede oltre sessanta tra attori, danzatori, cantanti, musicisti e maestri di arti marziali tutti provenienti dall’Indonesia. “Io creo solo – dice Wilson – la cornice: loro la riempiono con energia e creatività.”
Ma le tappe di questo cammino da Occidente a Oriente saranno molteplici. Una delle compagnie teatrali ravennati più vitali ed originali, la Drammatico Vegetale, prenderà spunto – con il suo nuovo spettacolo Prossimi al cielo – da quelle figure ascetiche e simpaticamente bizzarre che furono i Padri del Deserto (è bene a volte ricordare che anche il monachesimo, considerato uno dei caposaldi della civiltà occidentale, è nato in Oriente), che vivevano da eremiti tra Egitto e Siria, le cui gesta ed i cui detti sono giunti fino a noi, ispirando scrittori ed artisti, da Hieronymus Bosch sino a Luis Buñuel, passando per Gustave Flaubert. Il deserto adottato dagli eremiti come luogo ideale per stare soli e avvicinarsi a Dio divenne una città, di grotte magari, ma pur sempre brulicante di uomini. E così anche la solitudine si tramutò in “spettacolo”, anche se “santo”. Insospettabilmente (ma quando abbiamo a che fare con la nostra città siamo da tempo abituati a sorprenderci) anche la Ravenna del iii e iv sec. fu da alcuni viaggiatori descritta come una “nuova Tebaide” per la quantità di monaci (di provenienza per lo più orientale) che vi vivevano in una variegata e colorita costellazione di culti e lingue. Le musiche di questo lavoro che ci porterà nel mondo degli stiliti sono di Luciano Titi, regia e scene, rispettivamente, di Piero Fenati (autore anche dei testi) ed Ezio Antonelli.
Sarà un altro artista ravennate, il compositore e chitarrista Riccardo Battaglia, a proporci un inedito progetto – intitolato Fotogrammi di Bombay: da Bollywood a Takshila – dedicato alla musica ed al cinema dell’India. “Artisticamente il progetto – ci dice Battaglia – prende forma attorno all’idea dell’incontro: incontro che si realizza nel cinema di Franz Osten, regista tedesco che espatriò in India e per lunghi anni vi girò i suoi film; nell’ensemble che eseguirà dal vivo la colonna sonora del film, composto da musicisti indiani ed italiani; nella musica del gruppo Takshila, nato a Bombay nel 2001 come unione della tradizione strumentale indiana e di quella mediterranea”.
Se vi è poi un personaggio che ha saputo negli anni costruire e comunicare un raffinato universo fatto di parole e suoni che unisce Oriente ed Occidente anche nell’immaginario collettivo questi è sicuramente Franco Battiato a cui abbiamo chiesto di inventare una sorta di diwan musicale che introduca il suo concerto e che veda come ospiti i migliori musicisti della tradizione aleppina, tra le più vitali ed incontaminate in tutto il mondo arabo.
Inutile dire che il Ravenna Festival sarà molto altro ancora, e probabilmente si corre il rischio di discriminare ciò che si ritiene già noto e conclamato, come fosse cosa “normale” e consueta, come ad esempio Maurizio Pollini (altro straordinario ritorno sul palcoscenico del Teatro Alighieri), oppure grandi protagonisti della danza moderna come Maurice Bejart, Alessandra Ferri con i solisti del New York City Ballet, i Momix di Moses Pendleton e Micha van Hoecke (con un nuovo spettacolo dedicato alle arti marziali, intitolato Danse du sabre). Ancora: la produzione d’opera del festival (assieme al Teatro Comunale di Bologna e al Teatro Verdi di Trieste), ovvero il Macbeth di Verdi, diretto da Daniele Gatti (con la regia di Micha van Hoecke), il progetto dedicato ad uno dei più grandi compositori (e forse – ingiustamente – anche tra i meno conosciuti) a cavallo tra ’800 e ’900, quel Leós Janácˇek autore della straordinaria Messa Glagolitica che compendia come nessun’altra opera il fascino ed il mistero del rito cristiano ortodosso d’Oriente. Poi l’Accademia Bizantina, come sempre diretta da Ottavio Dantone, che si cimenta in un insuperato monumento musicale, senza tempo nella sua sublime perfezione: la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach.
Dopo il successo con cui è stato accolto dal pubblico del Festival il Galla Placidia di Nevio Spadoni, Luigi Ceccarelli ed Elena Bucci, Ravenna Festival ha commissionato un nuovo lavoro che vedrà questo “trio” trasformarsi in quartetto, grazie all’apporto di Chiara Muti, che indosserà i panni di Francesca da Rimini nel melologo omonimo che ha come sottotitolo: “Di me io so / che io sempre d’Amore mi lamento”. Le vicende sono note: Francesca da Rimini, figlia di questa terra, viene data in sposa contro il suo volere a Gianciotto Malatesti detto ‘lo sciancato’. Lei però ama il cognato Paolo, e pagheranno entrambi con la vita questo amore illecito. Alle contrastanti, incerte notizie storiche, supplisce l’immaginario di Nevio Spadoni – che descrive non due innamorati condannati ad una pena eterna, ma due anime che vivono in una dimensione a-temporale, distanti l’una dall’altra, unite però da un sentimento più grande e più profondo. Il melologo vuol essere un canto d’amore, ma anche il ribaltamento di antiche concezioni e credenze. E della scena dantesca, descritta con tanta pietà, non resta che la memoria poetica.
Inevitabile un riferimento a San Paolo, alla sua infiammata attività di apostolo, alla sua predicazione controcorrente, alla continua provocazione lanciata contro il ristagno morale di un’epoca in crisi, al suo linguaggio “universale ed eterno”. Quella di San Paolo è una figura di sconvolgente attualità. Nelle parole di Pier Paolo Pasolini (che proprio all’apostolo avrebbe voluto dedicare un film): “San Paolo è qui, oggi, tra noi. E lo è quasi fisicamente, materialmente. È alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia”. A Paolo il festival dedica tre momenti particolarmente significativi (i primi due nell’ambito di In Templo Domini: musica sacra e liturgie nelle basiliche): il grande oratorio Paulus di Mendelssohn, eseguito dall’Orchestra e dal Coro Filarmonico Slovacco, diretti da Zdeneˇk Mácal (una produzione di Ravenna Festival), Paulus Ecclesiæ Apostolus, la prima delle quattro liturgie domenicali (con il Coro Gregoriano Mediæ Ætatis Sodalicium, diretto da Nino Albarosa) ed infine Parole di San Paolo, una delle ultime composizioni di Luigi Dallapiccola, pagina bellissima e poco conosciuta che si avrà modo di ascoltare nell’interpretazione della vocalist Cristina Zavalloni, nell’ambito di un articolato omaggio cameristico (con l’Ensemble Dissonanzen diretto da Claudio Lugo) a due fondamentali esponenti della cultura del ’900 italiano ed europeo, ovvero lo stesso Dallapiccola e Goffredo Petrassi, dei quali ricorre il centenario della nascita.
Il nome di Petrassi ricorre ancora in un altro significativo appuntamento, che vuole essere un omaggio ed un riconoscimento da parte di Ravenna Festival ad un grande ed amatissimo musicista dei nostri tempi: Ennio Morricone. L’anno scorso Ravenna Festival, volle conferire un premio speciale (“Premio Ravenna Festival 2003”) al grande poeta e sceneggiatore romagnolo Tonino Guerra, “ricordando Federico Fellini”, quest’anno il premio si consolida divenendo una iniziativa fissa del festival, con lo scopo di insignire un protagonista indiscusso del mondo delle arti e della letteratura. Morricone è stato allievo di Petrassi (e ricordandolo in questa occasione si intende anche focalizzarne un aspetto della sua produzione musicale poco conosciuto: la composizione di colonne sonore per il cinema, una tra tutte quella per Riso amaro, il capolavoro di De Santis girato in gran parte nelle campagne del ravennate).
E infine… Damasco.
Damasco è l’ombelico di un gelsomino / gravido / che diffonde la sua fragranza, / come un tetto, / in attesa del nascituro.
Le bellissime parole del poeta siriano Adonis ci riportano alla meta/tema di quest’edizione di Ravenna Festival. Nel viaggio verso l’antica capitale di Siria ci accompagnerà ancora una volta il maestro Riccardo Muti, che nel teatro romano di Bosra, incastonato come un gioiello in una cittadella bizantina, che svetta nel deserto petroso che separa Damasco dal Mediterraneo, dirigerà pagine immortali scritte da Bellini e Respighi.