Il deserto cresce…viaggio tra simbolismo e utopia
18 giugno – 24 luglio 2005
Quasi un’Ouverture.
Multidisciplinare, multisensoriale, polisemico
Ravenna Festival è nato con una decisa vocazione all’incontro con le diverse discipline e linguaggi dell’arte, e nel corso degli anni ha indagato e sviscerato tutta quella complessa rete di analogie, di corrispondenze, di rapporti che legano indissolubilmente tra di loro musica, teatro, danza, arti visive, fino a giungere all’arte ‘moderna’ per eccellenza, ovvero il cinema. Ed anche all’interno delle singole discipline si è cercato di smantellare steccati, barriere e confini tra stili ed ambiti diversi, tra ‘alto’ e ‘basso’, ‘elitario’ e ‘popolare’, ‘colto’ ed ‘extracolto’ ecc. È accaduto allora che Beethoven potesse convivere con Lou Reed o Monteverdi con il gamelan balinese, con un’attenzione continua alla qualità, alla ricerca, all’innovazione indipendentemente dalle etichette e dalle catalogazioni (soggette anch’esse ad invecchiamento precoce).
Quest’anno si intende proprio andare all’origine di quella che si è rivelata essere una fertile utopia, al cuore del concetto stesso di ‘modernità’. Nel 1861 Charles Baudelaire decreta la fine del romanticismo e la nascità del ‘moderno’ con tutte le sue declinazioni, dal simbolismo in poi: nella raccolta dei Fleurs du mal compare la poesia Correspondances («La Natura è un tempio dove incerte parole/mormorano pilastri che sono vivi,/una foresta di simboli che l’uomo/attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari//Come echi che a lungo e da lontano/tendono a un’unità profonda e buia/grande come le tenebre o la luce/i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi/»). L’idea pervasiva, la magnifica ossessione di quei poeti maudits, flaneurs e dandies, era proprio quella della corrispondenza tra i sensi, gli organi percettivi e dunque tra le arti. Tutto era correlato, unito ad altro da legami misteriosi ed ineffabili e non scisso, concluso, a se stante, ma in un alone di mistero, di oscurità che prelude al decadentismo più estenuato. La sinestesia conduce o prelude all’annullamento, in quanto uscita dal mondo, epoché o tabula rasa (proprio nel raggiungimento di quella sorta di eccesso estatico che perseguiva), da cui deriva l’incombenza del male e del maligno, e della morte, nell’esaltazione della carne e nell’eterna dialettica tra eros e thanatos …al di là del bene e del male. In questo tema fatto di tanti temi e che innerva tutta la storia moderna delle arti e, soprattutto, della sensibilità e della weltanschauung dell’uomo moderno ricorrono, inevitabilmente, i nomi di Nietzsche, Wagner, Schopenhauer (la fine dell’arte, della storia e della filosofia). Si è già detto della tensione utopica e totalizzante che si concretizza nell’ideale wagneriano del Gesamtkunstwerk, dell’Opera d’Arte Totale, orgia dionisiaca che reca con sé anche la propria negazione, e dunque la perdita, il vuoto, l’assenza. Dall’utopia all’atopia, all’assenza di luogo o al luogo dell’assenza il passo è fin troppo breve, ove si dimentichi l’uomo e l’umanesimo, e che dopo la dannazione (inevitabile prezzo per la conoscenza anche biblicamente inevitabile?) vi possa essere una qualche redenzione (Faust, sempre). Dietro i bagliori iridescenti, dietro il fuoco che tutto brucia e avvolge, dietro i profumi che intossicano e annebbiano la mente, dopo l’estasi erotico-prometeica perseguita dal più simbolista dei musicisti, il russo Skryabin, quando il fumo viene spazzato via rimane solo il deserto, che avanza e cresce.
«Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti!/Pietra stride contro pietra, il deserto avvinghia e uccide (Lassù varcano mari di luce: o notte, o silenzio)».
Così scriveva Nietzsche, nel 1888, nei suoi Ditirambi di Dionisio. Ma uscendo dalla visione nichilistica e fosca del filosofo tedesco la dimensione simbolica che il deserto porta con sé contiene sì l’elemento dell’annullamento, ma anche quello del ritrovamento (del sé), della rinascita (dopo aver lasciato tutto dietro). Il deserto è il luogo per eccellenza dove il Maligno appare ed induce in tentazione, ma è anche luogo di redenzione; nel silenzio si attua il pieno ascolto. Per questo lo si è scelto come tema (e monito). Il deserto come paesaggio dell’anima, come luogo non-luogo in cui tutto è possibile, proprio perché non v’è nulla. Luogo elettivo nella musica e nelle arti moderne, dalla pittura all’architettura, luogo dell’utopia (le comunità degli utopisti albergano, sfidando il motto nietzscheano, proprio nei deserti). Tra Antonioni (il suo Deserto rosso, ambientato in un allucinato deserto industriale – allora futuribile oggi archeologico – ravennate, ma anche Zabriskie Point, l’apocalisse psichedelica nel deserto sulla musica dei Pink Floyd), Paolo Soleri e la sua Arcosanti, Reyner Banham e John van Dyke. E poi il deserto ‘fisico’ nella sua immensità geograficamente intesa: dal Sahara (la Libia…) ai deserti americani evocati da Wenders e Kusturica. Con Edgar Varése – il grande visionario americano, venerato, tra gli altri, da Frank Zappa e Charlie Parker, il cerchio si chiude: il più radicale e rivoluzionario dei compositori del ’900 dedica uno dei suoi capolavori proprio al deserto, tra le prime composizioni elettroniche che si ricordino. Il trionfo della spazialità in musica non poteva che essere ‘albergato’ nel deserto o ad esso rimandare. La dimensione spaziale del deserto, ed ancora biblica, come luogo di profeti e profezie, viene evocata anche da un altro grande musicista, questa volta italiano, Luciano Berio, di cui Ravenna Festival presenta una delle composizioni più straordinarie, Ofanim.
Il programma
La complessa ed affascinante rete di relazioni che intercorrono tra musica ed immagine, ascolto e visione, Augenmusik (musica per gli occhi), trova in alcuni episodi cardine della programmazione il punto di partenza per una campionatura significativa e stimolante. A partire dal Prométhée, le poème du feu di Aleksandr Scriabin – proposto nell’esecuzione dell’Orchestra e Coro del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, diretti da Valerij Gergiev – il più allucinante tra i lavori del visionario musicista russo, ideato nel miraggio di una sintesi estetica fondata su misteriose relazioni fra suoni e colori, nel programma di Ravenna Festival 2005 si dipana un percorso che, attraverso l’esecuzione di Desért di Edgar Varèse abbinata ad un video espressamente realizzato dal maggiore dei videoartisti viventi, l’americano Bill Viola, conduce al mirabile esito del rapporto artistico-creativo intercorso tra il compositore olandese Louis Andriessen ed il regista inglese Peter Greenaway (M is for Man, Music, Mozart).
Al demoniaco, tema tra i più indagati nella storia e dell’arte e della cultura europea, è dedicata l’apertura di Ravenna Festival, con il Faust di Gounod, tratto dall’omonimo capolavoro di Goethe. La regia di Micha van Hoecke si ispirerà, tra l’altro, ad uno dei capolavori del cinema muto espressionista: il Faust di Murnau. La parte musicale verrà affidata all’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”, di recentissima costituzione (nata per volontà di Riccardo Muti e per iniziativa di Ravenna Festival, della Fondazione “Arturo Toscanini” e delle Amministrazioni comunali di Ravenna e Piacenza), con la direzione di Gary Bertini.
Sempre il tema del demoniaco, filtrato attraverso il melodramma ottocentesco, è affrontato con un’ampia selezione di brani dal Mefistofele dello ‘scapigliato’ Boito che verrà proposta dall’Orchestra e dal Coro Filarmonici della Scala diretti da Riccardo Muti (il concerto verrà replicato anche in Libia, nella splendida cornice del Teatro Romano di Sabratha, l’insediamento romano sulle rive del Mediterraneo).
In posizione centrale nell’ambito della programmazione 2005 di Ravenna Festival è lo spazio dedicato ad una delle realtà europee più dinamiche ed innovative nella produzione di teatro musicale, ovvero Opera North, organismo attivo da molti anni nel nord dell’Inghilterra, tra Leeds e Manchester, vera e propria ‘fucina’ di giovani talenti nella regia. Opera North (con un’operazione analoga a quella effettuata nel 2002, sempre a Ravenna Festival, dal Teatro Helikon di Mosca, con la sua “saison russe”) proporrà due titoli di grande interesse e del tutto inediti nel nostro paese: Julietta di Bohuslav Martinu (con la regia di David Pountney) e la commedia musicale di Kurt Weill One Touch of Venus (regia di Tim Albery).
Sempre particolarmente ampia la fascia di programmazione riservata alle compagini sinfoniche ed ai grandi direttori d’orchestra. Riccardo Muti dirigerà due concerti sul podio dell’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”, residente a Ravenna nel periodo del Festival, due su quello dell’Orchestra e del Coro filarmonici della Scala, tra Ravenna e Libia, unite nel ponte d’amicizia sul Mediterraneo, ed uno assai speciale dedicato a Carlos Kleiber, il grande direttore d’orchestra recentemente scomparso a cui Muti era particolarmente legato da un profondo sodalizio artistico ed umano. Quest’ultimo concerto vede impegnata l’Orchestra Filarmonica ed il Coro da Camera Maschile sloveni (solista la soprano argentina Bernarda Fink). L’Orchestra di Lubiana sarà impegnata anche in un altro concerto, questa volta diretta dal proprio direttore stabile George Pehlivanian. Altra presenza significativa sarà quella di Jukka-Pekka Saraste, tra i migliori direttori della propria generazione, che dirigerà l’Orchestra Reale di Stoccolma, per la prima volta a Ravenna, con un interessante programma che vede il violinista greco Leonidas Kavakos impegnato nell’impervio concerto di Sibelius (con il quale vinse ad inizio carriera la Sibelius Competition, realizzando nel 1990 l’unica versione autorizzata di quella originale) e l’esecuzione di una delle più notevoli (e meno conosciute) tra le grandi sinfonie del ’900, ovvero la Quarta Sinfonia – “L’Inestinguibile” – del norvegese Carl Nielsen. Oltre al già citato Valerij Gergiev, con l’Orchestra e Coro del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, con il Prometeo di Skrjabin, restando sempre nel repertorio russo del ’900 l’Orchestra Cherubini si cimenterà in un programma interamente dedicato a Prokof’ev, che nasce dall’incontro con una delle massime scuole pianistiche del nostro tempo, quella di Alexander Toradze. Un incontro tra giovani musicisti italiani e russi a testimonianza dello spirito che caratterizza questa nuova compagine orchestrale.
Numerose poi le proposte dedicate alla musica contemporanea e del ’900. Si è detto del ‘nodo’ tematico dedicato all’Augenmusik, che fornisce l’estro per un concerto monografico in omaggio ad Edgar Varèse, proposto da uno dei maggiori gruppi orchestrali in ambito internazionale specializzati in questo arduo repertorio, ovvero la London Sinfonietta, diretta da Diego Masson, che si esibirà anche in un secondo concerto con brani di Andriessen, Stockhausen e Reich (tutti con l’abbinamento di immagini video realizzate espressamente dai migliori videomakers oggi in circolazione). Ravenna Festival poi dedica un omaggio al compositore Luciano Berio con due importanti concerti: nel primo il pianista e compositore americano Uri Caine creerà, assieme al suo ensemble, una sorta di ‘collage’ sonoro, denominato “Berio Project”, che utilizza frammenti e tecniche compositive dello stesso Berio (si tratta di una commissione di Ravenna Festival, in collaborazione con il centro fiorentino “Tempo Reale”, voluto e fondato dal compositore di Oneglia), mentre nel secondo verrà eseguita una delle più importanti composizioni di Berio appartenente alla sua ultima stagione creativa, ovvero Ofanim, per voce, coro di bambini e due gruppi strumentali. Questo concerto, che utilizza sofisticate tecniche di spazializzazione del suono, coinvolge l’italiano Nextime Ensemble, fondato e diretto da Danilo Grassi, la vocalist israeliana Esti Kenan Ofri ed il Coro di voci bianche della Radio di Budapest.
L’ampia sezione musicale del festival è poi variamente completata da altre interessanti proposte, che vanno dalla musica sacra barocca (l’Accademia Bizantina, diretta da Ottavio Dantone, impegnata nel monteverdiano Vespro della Beata Vergine), alle oramai consuete ed altamente apprezzate liturgie musicali domenicali che scandiscono il calendario del festival, fornendo l’occasione di fare conoscenza di tesori sia musicali che architettonici tanto preziosi quanto spesso ‘nascosti’, dai concerti cameristici (il Quartetto Alban Berg con Heinrich Schiff ed il Quartetto della Scala con il virtuoso di armonica a bocca Gianluca Littera) agli appuntamenti legati alla musica etnica ed al rock. Questi ultimi si segnalano per la presenza – per la prima volta in Italia – di uno dei massimi songwriter degli ultimi decenni: quel Brian Wilson – dreamer/sognatore delle spiagge della California – a cui si deve l’invenzione della surf music, colonna sonora di quell’estate senza fine che furono gli anni ’60, fondatore dei “mitici” Beach Boys, ma – soprattutto – autore ed artefice del disco considerato unanimemente tra i capolavori del pop-rock di sempre (tra i 10 LP/CD da portarsi nell’isola deserta, tanto per essere pertinenti), ovvero Pet Sounds, che ispirò inequivocabilmente il Sgt. Peppers dei Beatles (si trattò, in quegli anni leggendari, di una vera sfida tra ‘titani’). Wilson è tornato alla grande sulla scena pop contemporanea, ed il suo Smile (concepito alla fine degli ’60 ma ricreato integralmente) ha rappresentato il “caso” discografico degli ultimi anni, ottenendo un universale consenso sia da parte del pubblico che della critica assieme a tre nominations per i Grammy Awards, Dopo Lou Reed e Bob Dylan – e Paolo Conte, Renato Zero, e Franco Battiato per l’Italia – il Ravenna Festival ha così il piacere di ospitare uno dei protagonisti assoluti della musica pop.
Il tradizionale spazio dedicato alla danza vedrà la presenza prestigiosa, sul palcoscenico del Palazzo Mauro de André, di una delle compagnie “storiche” della danza moderna, quella fondata da Martha Graham, che dalla grande coreografa, scomparsa nel 1991, prende il nome. Segnaliamo poi una Giselle proposta dal Balletto del Cremlino, diretto da Andrei Petrov, ed il Sogno di una notte di mezza estate, con coreografie di George Balanchine, con il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala (étoile Roberto Bolle).
Notevole l’impegno produttivo di Ravenna Festival sul versante teatrale con due nuovi lavori delle due principali compagnie ravennati di nascita, ma che rappresentano la punta più avanzata della scena teatrale italiana contemporanea, già ampiamente conosciute ed apprezzate in ambito internazionale. Si tratta de La mano della Compagnia “Le Albe” di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, tratto dal romanzo omonimo di Luca Doninelli (con le musiche originali di Luigi Ceccarelli, le scene di Edoardo Sanchi e le luci di Vincent Longuemare) e di Vaniada (ideato da Luigi de Angelis e Chiara Lagani e liberamente ispirato ad uno dei capolavori letterari di Nabokov: Ada, oggetto di un sistematico lavoro di esplorazione letteraria e rielaborazione teatrale che non ha precedenti), definito dalla compagnia teatrale Fanny & Alexander “Concerto per pianoforte e due voci”, e su musiche di uno tra i compositori americani più influenti e significativi degli ultimi decenni, ovvero Morton Feldman. Questi due lavori, entrambi presentati in prima italiana, esemplificano un originalissimo percorso di ricerca che ha di fatto ‘reinventato’ in modo anche dirompente, il teatro musicale, e rimodulato l’incontro/scontro tra diversi linguaggi artistici, in quello che è probabilmente l’unico modo possibile oggi, e con una sensibilità realmente contemporanea.